By Tiziana Gazzini
“Art as such: this is not Pop”. Così il critico americano Gavin Keeney intitolava il saggio dedicato a Gaialight in occasione della mostra Starlight in New York. Omaggio al Tribeca Film Festival (New York, 2008).
Gaialight ha ben presente l’esperienza Pop, certo, e soprattutto Andy Warhol, ma come suggerisce Keeney è un’artista originale che va oltre le conseguenze del Pop. L’equivoco, però, è facile. E forse voluto. Gaialight ha lavorato fin dalla sua prima mostra personale (Light, 2004) sulle icone dell’immaginario collettivo, inserendole con libere associazioni, mai tranquillizzanti e spesso perturbanti, su oggetti di largo consumo con effetti sorprendenti e corrosivi. Fa parte del suo gioco attrarre l’osservatore con leggere seduzioni Pop per poi spiazzarlo e precipitarlo in vortici surrealisti, ironici e drammatici, che mentre strappano il sorriso fanno pensare.
Adesso è andata oltre.
Lasciando Roma e l’Italia per trasferirsi definitivamente a New York, la città di sua madre, Gaialight ha compiuto un passo denso di conseguenze artistiche. Dopo quasi due anni di american life e una serie di nuovi lavori che avevano sempre più al centro la realtà americana, ha comprato su internet la sagoma di cartone – cardboard standup – di Scarlett O’Hara (Rossella O’Hara per gli italiani), l’eroina di Via col vento, l’ha messa in valigia ed è partita con lei per una serie di viaggi che, tra metà 2008 e inizio 2009, l’hanno portata dalla California ai confini con il Messico, dall’Arizona alla Florida, da Detroit a Las Vegas, da New York a Washington, durante la lunga campagna elettorale per le elezioni presidenziali culminata con l’elezione di Barack Obama e il suo insediamento alla Casa Bianca.
A muovere Gaialight, un progetto artistico complesso e ambizioso, che fonde installazione e fotografia, collage e new media, insieme a funzioni che sono pre-artistiche: il tempo e lo spazio. Non è Pop Gaialight, adesso è un’artist-reporter, autrice d’immagini che interpretano la cronaca da un punto di vista personalissimo, espresso con un linguaggio figurativo inedito.
In quei mesi, in quei viaggi, Gaialight ha creato installazioni temporanee nelle più diverse realtà americane collocando il simulacro di Scarlett nella solitaria decadenza delle rovine industriali di Detroit e nell’affollata indifferenza della 5th Avenue, tra i Casino di Las Vegas e le ombre assolate della desertica Death Valley. E per stare sulla notizia, non poteva mancare l’ art-reportage del 20 gennaio 2009 a Washington. Non è difficile immaginare le difficoltà che Gaialight ha dovuto superare per mettere in posa l’eroina sudista di Via col ventosullo sfondo della cupola neoclassica del Campidoglio proprio dove, pochi minuti prima, il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America aveva tenuto il discorso d’insediamento a una platea mondiale.
Un’installazione spericolata (infatti ha preoccupato la sicurezza) che sintetizza in una sola immagine la storia di un paese sempre capace di superare guerre e conflitti economici e sociali per rialzarsi e azzardare scelte storiche e politiche poco prima difficilmente immaginabili: da Scarlett O’Hara a Barack Obama, dalla guerra di secessione per l’abolizione della schiavitù (1861-1865) all’America del futuro.
Un’installazione che diventa fotografia che a sua volta diventa supporto di un collage: la scalinata di Capitol Hill è tempestata di farfalle-cuori, mentre sulla cupola piovono dal cielo foglie-cuori. E’ la fase della “lightizzazione”, l’ultimo atto del processo creativo a cui Gaialight affida la sua cifra più personale.
Gaialight compie davvero il suo gesto artistico e manuale, linguistico e concettuale – per ora – più ambizioso: lightizzare l’America. E mai come in questa serie di opere è stata più chiara la potenza simbolica ed estetica (lostickers power, come lo chiama l’artista) del light-collage.
Cuori, stelle, note musicali trasformano Wall Street in una scenografia da Bollywood, un Club per soli uomini di Detroit in una quinta Art-Deco che starebbe bene in un film hard-boiled, il filo spinato che segna il confine Usa-Messico in un pentagramma di una musica che varrebbe la pena provare a suonare, Zabriskie Point in un mare di onde e l’oceano in un’immagine molto glamour, molto Hollywood e molto Paramount.
Una pioggia d’oro e d’argento cade poeticamente sugli alberi innevati di Central Park e sulle fronde autunnali di un parco di Detroit, su un murales di grande fattura dedicato a Malcolm X, e su un graffito elettrico. La polvere di cuori e stelle cosparge il ponte di Brooklyn e le rovine della Stazione Centrale di Detroit, penetra nei vagoni della metro di New York, sostituisce il fumo delle ciminiere di industrie che non producono più.
Adesso a Gaialight – artist-reporter con la bacchetta magica – non basta più lightizzare (alleggerire, illuminare, interpretare) accendini, lattine, televisori, oppure bare ed ausili all’handicap, incollandoci su il suo pantheon personale, inondandolo di cuori e stelle con dirompenti effetti semantici che non sono mai stati bibbidi bobbidi bù (a Gaialight interessano sempre le matrigne e le mele avvelenate, mai i baci dei principi).
Adesso, attraverso la fotografia e un concept sofisticato, è lei stessa a creare il supporto per il trattamento finale.
Gaialight questa volta ha lightizzato l’America. La sua nuova frontiera, solo qui poteva trovarla.
THE NEW FRONTIER
by Tiziana Gazzini
“Art as such: this is not Pop”. That’s how the American critic Gavin Keeney entitled his essay dedicated to Gaialight on the occasion of the exhibit Starlight in New York. Homage to the Tribeca Film Festival (New York, 2008).
Gaialight is well aware of the pop experience, and above all, Andy Warhol, but as Keeney suggests, she is an original artist who goes beyond the consequences of pop. However, the misunderstanding is easy. And perhaps intentional. Ever since her first solo exhibition (Light, 2004), Gaialight has worked with icons of the collective imagination, putting them on objects of mass consumption with free associations, never tranquilizing and often disturbing, with surprising and corrosive effects. It’s part of her game to attract the observer with light pop seductions only to catch him off guard and hurl him into a surrealistic, ironic and dramatic vortex which, while wrenching out a smile leads him to reflect.
This time she’s gone further.
Leaving Rome and Italy to move to New York for good, her mother’s city, Gaialight took a step laden with artistic consequences. After almost two years of life in America and a series of new works more and more centered around the American reality, she bought on the internet a cardboard standup of Scarlett O’Hara, heroine ofGone With the Wind, put her in a suitcase and left with her on a series of trips which, between mid 2008 and the beginning of 2009 brought them from California to the Mexican border, from Arizona to Florida, from Detroit to Las Vegas and from New York to Washington during the long electoral campaign culminating in the election of Barak Obama and his taking office at the White House.
Driving Gaialight was a complex and ambitious artistic project which combined installation and photography, collage and new media, together with functions which are pre-artistic: time and space. It’s no longer Gaialight pop, now it’s the artist-reporter, author of images which interpret the news from a very personal point of view, expressed with a fresh, figurative language.
During those months, those trips, Gaialight created temporary installations in the most diverse American realities placing Scarlett’s cardboard standup in the solitary decadence of the industrial ruins of Detroit and in the crowded indifference of Fifth Avenue, among the casinos of Las Vegas and the sunny shadows of Monument Valley. Keeping on the subject of news, an art-reportage of January 20, 2009 in Washington couldn’t be missed. It’s not hard to imagine the difficulties Gaialight had to overcome to stand the southern heroine of Gone With the Wind in a pose with the neoclassic dome of the capitol in the background exactly where, a few minutes earlier, the new president of the United States of America delivered his inaugural address in front of a worldwide audience. A daring installation which, in fact, worried the security guards, and which synthesizes in a single image the history of a country always able to overcome wars, economic and social conflicts to realize itself and to dare to make historical and political choices until then unimaginable: from Scarlett O’Hara to Barack Obama, from the Civil War for the abolition of slavery (1861-1865) to the America of the future. An installation which becomes photography which in turn becomes the support for a collage: the steps of Capitol Hill are studded with heart-butterflies, while from the heavens heart-leaves rain on the dome. This is the “lightenization”, the final act of a creative process to which Gaialight entrusts her most personal signature. Gaialight computes her most ambitious artistic and manual, linguistic and conceptual gesture to date: to lightenize” America. And never as in this series of works has the symbolic and aesthetic power of the light-collage been clearer. The artist calls it sticker power.
Hearts, stars, musical notes transform Wall Street into a scene from Bollywood, a club for men only in Detroit into an Art-Deco wing that would fit well in a hard boiled film, barbed wire that demarcates the boundary between the United States and Mexico in a musical staff that would be worth trying to play, Zabriskie Point in a sea of waves and the ocean in a very glamorous image, very Hollywood and very Paramount. A shower of gold and silver falls poetically on the snow laden trees in Central Park and on the autumn foliage of a park in Detroit, on a great mural dedicated to Malcolm X, and on a graffiti which is electrifying. Heart and star dust sprinkles on the Brooklyn Bridge and the ruins of the Michigan Central Depot in Detroit, it penetrates the cars of the New York subway, substitutes the smoke from the chimneys of factories that no longer produce anything.
Now, for a Gaialight – artist-reporter with a magic wand – it’s no longer sufficient to “lightenize” (to lighten, illuminate, interpret) cigarette lighters, tin cans, television sets, or coffins and aids for the disabled, sticking on them her personal pantheon, inundating them with hearts and stars with unsettling semantic effects, which have never been the magical bibbidi bobbidi boo (Gaialight is always interested in the cruel step-mothers and the poisoned apples, never the princes’ kisses).
Now, through photography and a sophisticated concept, it is she who creates the support for the final treatment.
This time Gaialight lightenized America. Only here could she find her new frontier.